OPES A TU PER TU: DENTRO IL NON DETTO - EPISODIO 2

  • Home
  • /
  • News
  • /
  • OPES A TU PER TU: DENTRO IL NON DETTO - EPISODIO 2

OPES A TU PER TU: DENTRO IL NON DETTO - EPISODIO 2

Scritto il 03/01/2024

Opes a tu per tu: dentro il non detto è una delle novità che quest’anno vogliamo inaugurare per coinvolgervi direttamente: del più e del meno parlando, attraverso domande mirate abbiamo modo di sentire il vostro punto di vista, rendendolo protagonista di una nuova finestra dove la parola viene scavata affinché ne fuoriesca tutto quello che deve e vuole essere espresso. Come un libero confessionale, uno specchio dove riflettere i propri ricordi e pensieri, questa iniziativa nasce nell’intento di aprirsi in prima persona e contribuire ad articolare, tessera dopo tessera, quel reticolato puzzle che è l’Opes con tutti i suoi volti, i colori e le diverse sfumature. Un intervistatore e un intervistato, come nel più classico immaginario sportivo. Nessun filtro. Piena libertà e conseguente responsabilità. Divertimento e calcetto, indagato dalla lente più intima: quella della vostra mente.
Nica Ionut Daniel, portiere del Rayo Vencedor, è il protagonista di questo episodio!

«Daniel, siamo lieti di averti con noi. Cominciamo dalle origini in Romania: com’è nata la passione per il pallone? Quando hai capito di voler difendere i pali della porta e diventare portiere?».
«Davanti ai palazzi e nei parcheggi, la mia storia comincia nell’umiltà più sincera e pura: ho scoperto il calcio per strada e me ne sono innamorato subito. Di quell’amore che costa sacrificio, impegno, l’arte del sapersi arrangiare. Usavo i guantoni da saldatore di mio padre, non avevo niente se non la voglia di giocare. E il primo provino lo provai da attaccante, con scarsi risultati. Sono matto, anzitutto, e tutti i portieri sono matti: è una legge non scritta piena di verità. Sono fatto per buttarmi e rialzarmi, buttarmi e rialzarmi… già da piccolo pensavo. A dieci anni mi sono tuffato nel cemento, ed è stato il salto più doloroso, bello potessi mai fare. Ho passato un provino di calcio a 11 per le giovanili della seconda squadra di Braila, che al tempo militava in Serie C rumena, parando tutto, tutto, al costo delle ginocchia e dei gomiti insanguinati: non prendere gol non aveva prezzo per me. E fin quando mi buttavo io, con le mie stesse mani mi rialzavo; ma il calcio e la vita però sanno essere crudeli, perché possono decidere di spezzarti le ali quando spicchi il volo: in quello stesso periodo ho subito due gravi interventi che hanno compromesso lo sbocciare della mia carriera, come due fulmini che improvvisamente rovinano un sogno prima ancora che possa cominciare. E due sono stati anche gli anni in cui mi sono fermato, troppi per evitare che il mio processo di crescita purtroppo non rallentasse tra le paure, i rimorsi, la rabbia di un qualcosa che ti è stato improvvisamente e ingiustamente sottratto. Dopo nulla è stato come prima: tra prestiti in categorie inferiori, prestazioni altalenanti e non convincenti, qualcosa si era rotto nel corpo e nella mente: quei due anni sono stati una cicatrice traumatica, indelebile, perché avrei voluto mangiare il mondo, e il mondo ha mangiato me».

«Poi ti sei trasferito da noi, inaugurando un nuovo capitolo della tua vita. Cambiano i paesi, cambiano le abitudini? Quando sei arrivato in Italia, com’è stato l’impatto con il calcio? E quando hai conosciuto il suo cugino, quel calcetto dove hai costruito il tuo nome?».
«Più che cambiare, nel mio caso si sono rafforzate. Ho vissuto i primi anni a Roma, e anche lì in qualche modo giocavo per varie squadre di provincia (Viterbese, Civitavecchiese) senza cartellino, pur allenandomi intensamente. Ma il problema burocratico del tesseramento, le commissioni onerose che girano in quelle categorie… se mi avessero voluto, mi avrebbero preso regolarmente, ho pensato. Poi sono arrivato ad Arezzo, dove la Stella Azzurra mi ha accolto tra i pali per due anni: ero un ragazzino perfettamente inserito nel sistema, nella famiglia, e di quell’esperienza ho un ricordo splendido. Un ricordo, però, perché il passato è passato, e avrei anche voluto scrivere il presente e il futuro con loro, ma nell’accordo verbale che ci siamo dati di recente, sono stato scelto come terzo portiere. Allora ho capito che la Stella Azzurra, con il bene che le potessi volere, era una parentesi ormai conclusa della mia carriera. Con il dovuto rispetto e le personali riflessioni: so di meritare più di quel che mi è stato proposto… Nel 2005 ho iniziato con il calcetto, partendo dalla Uisp e una delle più forti squadre di Arezzo: il Dracula Boys. Grazie alla chiamata di un mio caro amico e devastante giocatore, Dediu Adrian. Non ce n’era per nessuno, senza dubbio. E al mio esordio, in una finale playoff tiratissima (1-1) e vinta ai rigori, mi sono fatto valore e ho vinto, inaugurando un ciclo di successi che ho poi proseguito nell’Opes fino al 2010. Mi sono buttato, e sebbene cambiassero le dimensioni della porta dietro le mie spalle, l’obbiettivo era sempre lo stesso: salvarla a qualsiasi costo. Mi sono buttato, e nel 2010 sono ricaduto in un momento terribile, segnato da un infortunio doloroso, la goccia che ha fatto traboccare il vaso, l’inizio della mia prima fine. In una partita di regular season dello Steaua, squadra dove militavo, sono stato vittima di un episodio sfortunato: ho sbattuto la testa, mi sono rotto il gomito e ho capito che era giunto il momento di ritirarsi, mettere la salute al primo posto, perché non concepivo come il mio corpo potesse subire tanto, e il destino giocare così crudelmente con le mie condizioni. Guantoni al chiodo e riposo: il calcio per me era morto, finito con quella partita, e insieme a lui una parte di me. Ah, tra parentesi, l’arbitro non ha fischiato il fallo, e ancora oggi mi prende un po’ il nervoso un po’ il riso a ricordare una svista del genere…».

«Eppure il lieto fine lo conosciamo, se oggi per fortuna possiamo ancora intervistarti: quando hai ricominciato? E quali squadre hanno caratterizzato la tua rinascita, il Daniel 2.0?».
«Sette anni dopo, nel 2017, una domenica sera ho ricevuto la stessa chiamata che ricevetti nel 2005. Ancora una volta lui, ancora Adrian nella maniera più semplice possibile: “Daniel, che fai? Vuoi venire a giocare con noi?”. E io avevo una voglia assurda di rimettermi in gioco, a maggior ragione se a sollecitarmi era lui, che rispettavo e di cui mi fidavo molto. Da lì, il dominio più totale: ho riniziato con I Las Fierbinti, vincendo venti partite e pareggiandone solo due in campionato, riscoprendo la mia forza, che invece di essere sopita era stata riaccesa dall’entusiasmo, dalla passione. E la gente cominciava a notarlo, cominciava a temermi sportivamente: un motivo per me di orgoglio. Banchetti Miki, che negli anni è diventato un grande amico, mi ha dato e fatto di tutto per convincermi ad unirmi allo Sporting Soze. Ed io l’ho apprezzato, perché sono segni di stima e affetto, segni indelebili che conservo nel cuore. Sono parole che mi lusingano e gratificano, rendendomi ancora più pronto e adatto al ruolo assegnato: l’ultimo difensore, la colonna di una squadra meravigliosa, fatta dei giocatori al tempo più forti in circolazione. Un team irreale, che ha vinto qualsiasi cosa, e lo ha fatto partendo da me, con Miki e Di Rosa Giuseppe al timone, e il meglio che si potesse avere in tutte le zone del campo: Sandu Alin, Teme Omerd, Cuevas Randolph, Florin Pantea, Tremonte Davide ecc… Abbiamo vinto ogni partita, sono risultato il miglior portiere della lega: la mia sfida personale l’avevo stravinta. E quando stavamo per scrivere la stessa storia anche nella Uisp, e contemporaneamente nell’Opes stavo gareggiando con il New Old Boys, squadra nata dall’ossatura rumena dello Sporting, c’è stato quel periodaccio che tutti purtroppo ricordiamo: il COVID, la pandemia, l’interruzione dei campionati, la paura, l’apprensione, il vuoto… Te l’ho detto: mi sono buttato, come sempre… e poi siamo caduti. Tutti insieme. C’è chi si è fatto più male degli altri, c’è chi ha assorbito il dolore in maniera diversa: io dovevo stare con la mia famiglia, sentivo il bisogno di ricongiungermi ai miei cari. Sono tornato a casa: ho sospeso la mia vita, come un periodo di pausa in cui il mondo si è fermato e insieme a lui la mia testa, e ancora il mio corpo che necessitavano di respiro. Ma il mio respiro, ho capito, è fatto soprattutto di Italia e di calcetto: avevo un compito da terminare, una promessa con me stesso non mantenuta, una passione da riaccendere».

«La quiete prima della tempesta, in questo caso. Come arriviamo all’attualità? Al rivale di un tempo: il Rayo Vencedor?».
«Ci arriviamo passando dal mio ritorno. I New Old Boys stavano facendo fatica nella stagione successiva al Covid, e io avevo una fame impressionante. Quanto basta per sbranare gli avversari, vincere la Serie A nonostante la brutta partenza e sostanzialmente ripartire da dove avevo terminato. Poi… un anno difficile in tutti i sensi: la categoria era di livello altissimo (V X Vendemmia, Full Eagles, Rayo Vencedor, Atletico Valcerfone) con tutte le squadre che in precedenza avevano vinto nei rispettivi campionati, e la nostra organizzazione complessa, poco precisa per conquistare il primato. La differenza, lo dico sempre, passa dalla qualità e dalla quantità: saper assemblare giocatori con criterio, ordine, rigore. Noi eravamo bravi, e siamo arrivati a giocarcela fino alla penultima partita. Ma mancava quel pizzico di equilibrio organizzativo, e lo sapevo da inizio anno; però non me la sentivo di lasciare il treno senza conducente, il gruppo senza timoniere. E sulla pelle ho pagato una sconfitta che mi rimane amara, una “disfatta” da cui ho imparato la lezione. Il resto è storia recente, recentissima: Busà del Rayo venne a sapere che ero libero, e inizialmente ci siamo accordati per una “mano”. Io, in porta, di mani ne metto sempre due, insieme ai piedi, allo spirito, e dopo un paio di partite era nata una bella amicizia e una sincera intesa. Ho trovato un gruppo splendido, il migliore per ora mai sperimentato, dati gli anni e anni di conoscenza che li lega, e l’ospitalità meravigliosa con la quale mi hanno accolto. Cascini Giorgio è una persona incredibile, perché genuina, spontanea, gentile, qualità rare al giorno d’oggi. E la squadra completa, con una rosa profondissima, e soprattutto un credo calcistico che mi ha sempre affascinato: è l’unica squadra che sa giocare a calcetto, a pochi tocchi e coralmente, sa stare in campo per come si dovrebbe stare. Ed è gestita con pazienza, empatia: con loro mi arrabbio poco, praticamente mai, perché minore è l’esigenza di arrabbiarmi tatticamente, eppure quelle poche volte sono sempre stato capito nell’agonismo, e questa cosa mi dà serenità. Siamo i più forti, per me, tra le squadre partecipanti, e lo dico dopo l’ultima sconfitta con il V X Vendemmia, contro il quale ci giochiamo il titolo. E se volessi, per come siamo dominanti (ricorda, tra le partite, il 20-0 contro il G.S. Olmoponte, ndr), potrei essere ai vertici della classifica dei capocannonieri, dato il mio vizio di salire e segnare! E pensare che il destino sa essere simpatico: una volta, in una partita tirata dove li sfidavo come avversari, esultai in faccia proprio a Busà per un mio gol decisivo. Ancora ci ridiamo, perché da quel confronto, da quella discussione è nato qualcosa di concreto che ora condividiamo sul campo».

«Mi hai parlato di grandi parate, e per le grandi parate servono grandi tiratori. Ti chiedo allora: quali sono i giocatori più forti affrontati? Quali i portieri? E in definitiva: quale la tua migliore partita?».
«Mi aspettavo questa domanda, ma non ho preparato niente. Sarebbero tanti i nomi, di getto ti dico che il miglior tiro l’ho visto nel mio amico Adrian: come tirava lui, di esperienza e tecnica, di punta come si fa al calcetto, nessuno. Bucava le mani e la rete letteralmente. Tra gli attuali dico Gozzi Yaris, che definirei “giovane Adrian”: dagli mezzo metro di spazio e ti fa male. E come difensori metto il “Biondo” Lemnaru Petrica Cristel e il “King” Severi Luca, che mi danno una sicurezza impressionante. Dei colleghi portieri citerei Severi Valerio, matto come me e felino nelle movenze; poi il portiere del Dinamo Draida, Luigi Anghelescu, che ai playoff contro di noi (Las Fierbinti, al tempo) fece i miracoli. Anche Ristori Giordano lo conosciamo, ed è forte. Ma tutti si allenano e si sono allenati nel tempo, mentre io sono così, di talento naturale, gioco al massimo una partita di calcetto a settimana. E mi pare di essere comunque il migliore…con il solo difetto della testa: se perdo quella, è finita. La miglior partita la giocai invece in una semifinale contro il Real Tucano, in un torneo estivo organizzato dall’Opes, con i ragazzi del New Old Boys. Nonostante il livello, siamo arrivati fino in fondo, fino alla finale; e per arrivare lì abbiamo battuto un Real Tucano che era oggettivamente la miglior squadra del torneo. 2-1 per noi il risultato finale: mi arrivavano tiri dappertutto, tiri da gente come Ferrini e Mattesini. Non è entrato niente, e aver visto Ferrini come spaventato, mentre si accingeva a battere il tiro libero, deve far capire lo spessore enorme della prestazione».

«Infine, tra le tante descritte, quale la miglior versione di Daniel?».
«L’ultima, il Daniel che dal 2017 è tornato a giocare con una voglia pazza e una completezza tecnica raggiunta negli anni. Il Daniel che nel mentre è diventato padre, ha saputo conoscere il suo carattere in tutte le sfaccettature positive e negative, e nel figlio – anche lui portiere – vede il senso dei propri sacrifici, della propria passione, in quegli occhi vede la stessa dipendenza dal pallone, che è il fuoco interiore di un ruolo che vive di adrenalina, di bruciore. Il Daniel che è caduto tante, tantissime volte, ma si è buttato come il primo giorno in cui ha iniziato sul cemento. E si è sempre rialzato». Torna Indietro