OPES A TU PER TU: DENTRO IL NON DETTO - EPISODIO 1

  • Home
  • /
  • News
  • /
  • OPES A TU PER TU: DENTRO IL NON DETTO - EPISODIO 1

OPES A TU PER TU: DENTRO IL NON DETTO - EPISODIO 1

Scritto il 20/11/2023

Opes a tu per tu: dentro il non detto è una delle novità che quest’anno vogliamo inaugurare per coinvolgervi direttamente: del più e del meno parlando, attraverso domande mirate abbiamo modo di sentire il vostro punto di vista, rendendolo protagonista di una nuova finestra dove la parola viene scavata affinché ne fuoriesca tutto quello che deve e vuole essere espresso. Come un libero confessionale, uno specchio dove riflettere i propri ricordi e pensieri, questa iniziativa nasce nell’intento di aprirsi in prima persona e contribuire ad articolare, tessera dopo tessera, quel reticolato puzzle che è l’Opes con tutti i suoi volti, i colori e le diverse sfumature. Un intervistatore e un intervistato, come nel più classico immaginario sportivo. Nessun filtro. Piena libertà e conseguente responsabilità. Divertimento e calcetto, indagato dalla lente più intima: quella della vostra mente.
Giovanni Bubbico, allenatore del Dream Team (Serie C1), è il primo protagonista del format!

«Mister, è un'immensa gioia averla ai nostri microfoni. E subito ne approfittiamo per chiederle: come si sente? E quali sono le sensazioni di quest’anno con il suo caro Dream Team?».
 
B: «Grazie a voi per la bella opportunità, sono contento ed orgoglioso di rilasciare questa intervista; e ricominciare finalmente il campionato con la mia amata squadra, dopo gli ultimi difficili anni: per me è come risalire dopo esser caduti all’improvviso. Certo a quest’età fa più male, ma ci si rialza. E addirittura si ringiovanisce, dato che mi sento bene, con lo stesso entusiasmo degli esordi, come avessi di colpo perso almeno venti anni! Il merito, a dire il vero, è dei miei ragazzi: siamo ripartiti da una solida base di giocatori fedelissimi e giovani leve. L’“usato sicuro”, come piace definirlo a me: giocatori come Miki Banchetti, i fratelli Di Rosa, Lugugnani Niccolò e Barbini Andrea, che conoscono il gioco e hanno il loro carico di esperienza; e poi nuove promesse, ad esempio Romanelli Riccardo e Bartoli Christian, che rappresentano dei “problemi positivi” per un allenatore: ragazzi anche troppo forti, la cui tecnica e qualità vanno sapute dosare per il bene della squadra. Un grattacapo che mi piace avere e su cui vorrò lavorare; e fossero sempre questi i problemi...».

«Il tono lo conosciamo bene, mister! E allora le chiediamo di ricordare, sebbene sia noto ai più, la natura del suo gioco. Se è disposto a cambiarlo, al passo con i tempi e a seconda del risultato. Aggiungendo: quali sono gli allenatori a cui si ispira?».

«Insisto e lo ripeterò sempre: ogni mia squadra deve partire dal pressing asfissiante, che rappresenta il fulcro del gioco. La palla dobbiamo averla noi costantemente: se la perdiamo, dobbiamo recuperarla, difendendo attraverso l’attacco. Scambi veloci e orizzontali, mai lunghi e verticali. Tirare in porta il più presto possibile, anche a costo di rinunciare al tocco in più. E segnare tanti goals. Non accetto compromessi o mezze misure: non l’ho mai fatto e mai lo farò. I risultati mi danno spesso ragione, quindi rimango integralista, amante della forma più che della sostanza; magari anche vincente. Per quanto riguarda gli allenatori, in un’ideale piramide metto Liedholm al primo posto: un genio assoluto, Guardiola prima che nascesse Guardiola. Oggi tutti conoscono il Tiki Taka. Al tempo si chiamava “ragnatela”: una infinita serie di passaggi tessuta con pazienza e calibrata sapientemente con l’intento di “cavare il ragno dal buco”. Giocare di attesa per ingannare pian piano l’avversario. E poi colpirlo forte, stenderlo senza pietà. C’è chi pensa siano sistemi noiosi: io credo ci sia dietro una preparazione ossessiva, maniacale, di cui andarne fieri. Poi Sacchi, con cui ho avuto il piacere di confrontarmi nei vari eventi che qui ad Arezzo lo hanno visto ospite. Mourinho sta nel mezzo: ineccepibile sul piano dei titoli, contestabile nel gioco. Non ho mai sopportato Mazzone, troppo caricaturale e “personaggio” per i miei gusti. E non ho problemi nel dire che anche Ranieri non mi sta troppo simpatico: oltre la retorica fuffa del tenero romanista, le melense lacrime mostrate davanti alle telecamere, tatticamente non porta nulla».

«Da come dice, mister, ha avuto la fortuna di allenare tantissimi giocatori. Quanto è importante per lei il rapporto umano con loro? C’è qualche nome specifico che porta nel cuore? E per qualcuno serba rancore?».

«Vi porto un po’ di numeri. 153 sono i giocatori complessivamente allenati, di cui 123 nel Dream Team. Gli stranieri sono 28: 7 dall’Albania, 5 dal Santo Domingo, 4 dalla Romania, 2 dal Marocco, 2 dalla Russia e almeno uno dal Brasile, dall’Ucraina, dal Venezuela, dalla Colombia, dall’Afghanistan. (Bubbico non conta nel numero totale i componenti dell’Irish Football Club e del Dream Team 2.0, ndr). Degli altri non ricordo la nazionalità, ma credo questi bastino a vedere come ho abbracciato il mondo unendolo nel segno del calcetto. Nel segno fondamentale del rispetto, che va dato e si riceve tra avversari, con gli arbitri, nella squadra. Il rapporto umano diventa imprescindibile per me, oltre qualsiasi lato tecnico: con i miei ragazzi devo sapere e potere comunicare, scambiare opinioni e battute, stringere amicizia fraterna. Per questo voglio nominare, con un certo e piacevole imbarazzo della scelta, bombers del passato remoto e recente: Emanuele Serantoni e Adriano Celentano, che ben volentieri ricordo perché il loro nome compariva fisso nel tabellino di qualsiasi match. Stefano Caneschi poi, di ruolo portiere, che di goals non ne ha fatti prendere in svariate occasioni. Grandi atleti e ottime persone. Tra i marcatori più prolifici potrei citare anche Gomez Francisco, ma nel suo caso vale il discorso fatto poco fa: non basta la sola qualità. Con lui il rapporto non è più quello di un tempo. Spiace ma si va avanti, ognuno per la sua strada».

«Dopo aver toccato il cielo con un dito e coronato una carriera di assoluto rispetto con il campionato vinto dal Dream Team, un mattino si è riscoperto più umano: il primo esonero in carriera con l’Irish; le dimissioni con il Dream Team 2.0. Sente di essere totalmente colpevole? Cosa non è andato bene fuori la zona di comfort?».

«Colpevole mi sembra una definizione esagerata; piuttosto direi “vittima” di diversi processi da cui forse non ho saputo difendermi adeguatamente, diffamato senza che avessi fatto nulla di male. Cerco di spiegarmi. Con l’Irish l’alchimia, a causa di molteplici fattori, non si è mai creata: il dovermi ritrovare a condividere una panchina con un altro allenatore, acerbo e dipendente dalle mie scelte, non mi ha aiutato, non essendo per principio abituato a dividere l’incarico con nessuno. Nessuna pretesa di arroganza: l’allenatore deve essere uno soltanto. Dovevo fare e spiegare, insegnare come si fa alle prime armi; ma calato in un contesto nuovo, volevo solo allenare come mi è sempre riuscito, senza render conto delle decisioni, con tutto il rispetto per il ragazzo che stimo come persona. Oltretutto la situazione societaria quell’anno era davvero complicata: non sapevamo mai con chi e come presentarci, la squadra era di giornata in giornata diversa, la dirigenza lontana e confusionaria. Non c’era un piano societario: soltanto tesserati “volanti” che avrebbero fatto fatica a capire un gioco che va assimilato lentamente. Ma tutto si reggeva su un equilibrio labile, fino a quando ho scoperto di essere stato esonerato – per la prima volta in carriera – da un presidente “assente” che non ho mai visto. Motivo del licenziamento: presunto tradimento. Un moderno caso mediatico, direi. Da un contatto avuto a imminente fine del campionato con un vecchio amico e giocatore ne è scaturito un terremoto. La mia è stata una chiacchierata informale, un messaggio che si manda a cuor leggero, senza doppi fini. Non so come siamo arrivati a questo, come si sia diffusa la voce; ma per certi versi è stato bene così per entrambe le parti: come in un matrimonio mai iniziato e destinato al fallimento, abbiamo velocizzato i tempi. Con il rispetto che ancora preservo umanamente per i ragazzi, nonostante tutto corretti ed educati. Verso i quali provo una serena freddezza. Un capitolo strano, difficile della mia vita, un primo passo verso il fondo toccato con il Dream Team 2.0, dove le accuse, l’ansia le ho percepite fin dalle prime amichevoli. Le premesse non erano allettanti ma necessarie, dato che non avrei sopportato un periodo di fermo: ho trovato questa squadra sulla pagina Facebook Sei di Arezzo se, nella speranza di poter ripartire con il mio amato sogno: ricostruire il team vincente di una volta. Sogno che è stato rovinato, di fatto, dall’anarchia di un gruppo comandato da due persone con i quali il rapporto non è mai sbocciato: non condividevo la loro gestione e parlavamo due lingue diverse. Per non parlare dei risultati: la prima di campionato abbiamo perso 10-2, umiliati senza appello. Un ginepraio totale. E subito le accuse, la tensione: mi è stato posto un aut aut tremendo. O io o loro. Mi sono dimesso, perdendo anche i completini che gli avevo dato per disputare le partite. Oltre al danno, la beffa. E oltre alla beffa, l’ulteriore disagio di doverli ritrovare quest’anno, in una “veste” nuova con un nome diverso – e chissà se con le stesse divise – nel campionato dove partecipo con la mia squadra. La legge è uguale per tutti, mi ripeto, in questo processo che credo sia finito e ormai parte del passato».

«In definitiva: chi è Giovanni Bubbico? E cosa va scrivendo in quel taccuino che custodisce gelosamente in campo?».

«Un uomo anziano alla ricerca dei valori perduti. Che in sé coltiva sempre l’animo di un bambino pieno di entusiasmo, con gli occhi lucidi mentre chiede indicazione all’arbitro. Nonostante gli anni e le fatiche, come se il calcetto mi desse una linfa che scorre forte, pulsante, vitale. E di colpo ritrovassi la felicità della beata gioventù insieme ai ragazzi, nel sacro rispetto del gioco: dell’etica che rappresenta il punto da cui tutti dovremmo ripartire. Nel taccuino scrivo solo nomi e cognomi dei giocatori per ricordarmeli, magari insieme a qualche caratteristica fisica come la barba, i capelli. Niente di segreto o tattico: la tattica è dentro la mia testa, scolpita, impressa, e niente potrà mai cancellarla».

A cura di Alessandro Di Rosa Torna Indietro